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sabato 19 aprile 2014

COLD IN JULY TRAILER


Di tutta la vasta produzione letteraria di Joe R. Lansdale, Bubba Ho-Tep è l'unico romanzo che abbia potuto godere di una trasposizione cinematografica, invero piuttosto riuscita tanto da guadagnarsi lo status di instant cult. Mi risulta incomprensibile questa latitanza dal grande schermo, eppure il materiale del romanziere texano è sempre stato altamente cinematografabile. Qualcuno però deve aver sentito il grido di dolore della fanbase, considerando che anche un altro importante progetto è stato messo in cantiere. 
Cold in july è il romanzo dove Lansdale trova finalmente uno stile unico e potente, dopo la buona prova di The Nightrunners e una serie di romanzetti pulp interessanti ma ben lungi dall'essere memorabili. 
Quindi aspettavo al varco questo trailer. Quel che ho visto mi ha lasciato un'ottima impressione: vi si ricalcano con perizia maniacale le linee guida dell'opera originale, anzi a dirla tutta il montaggio è foriero di qualche spoileruccio (non troppo ingombrante). Fa piacerissimo veder vestire i panni di Jim Bob, mitologica figura ricorrente nella saga di Hap e Leonard, a Don Johnson. Mi pare che anche Michael C. Hall, a corto di zazzera proprio come nel libro, sia più che adatto nel ruolo del protagonista Richard Dane e forse riuscirà a scrollarsi di dosso il pesante fardello ereditato da quel serial lì dove piallava gli psyco. Regia e fotografia sembrano suggerire un budget di un certo peso, almeno per gli standard del Sundance dove è stato presentato. Il film è previsto per l'estate nei cinema Uk, quindi non passerà troppo tempo prima di poterci metter su le manacce. Buona visione.

venerdì 21 marzo 2014

STEPHEN IRWIN: THE OBVIOUS CHILD TRAILER

Visto al Cortoons, stasera. La parola Sundance potrebbe fuorviare, mi rendo conto. Tuttavia: scrivetevi un appunto, un post-it, fatevi un nodo all'uccello o chessò io per recuperarlo quando sarà di dominio pub(bl)ico.



Bonus: il precedente corto di Irwin, Moxie. 

mercoledì 12 marzo 2014

GUARDA GANZO, È FINITO GANTZ


Erano i primi giorni del gennaio 2011. Deambulavo euforico tra gli scaffali di una sconfinata libreria dedicata al fumetto nel cuore di Ikebukuro, quartiere di Tokyo. Cercavo i tankobon dei manga con i quali ero cresciuto, magari qualche numero 1 di un classico, da sistemare nella teca del mio studiolo e da adorare segretamente. Robe da nerd. Trovai un sacco di belle cose ma non riuscivo a decidermi su quali comprare, non che mi fosse rimasta tanta pilla verso la fine del viaggio. Finchè non mi venne in mente Hiroya Oku il tettomane: le action figures di Gantz non le avevo trovate e mi ero dovuto accontentare del Jojo meno femminiello (Josuke), mentre in realtà io volevo Kishimoto e le sue tette budinose. Perciò pensai di ripiegare su Gantz Minus che all'epoca era uscito nel solo Giappone. Tra parentesi, in quei giorni i cinema tokyesi proiettavano il film di Gantz, in anteprima. Comunque, visto che non c'era modo di orientarsi in quel suq di carta ed emozioni, mi rivolsi all'omino della cassa:
"Sorry, where i can find Gantz"
"Ganz?"
"Gantz!"
Il commesso si corruccia, si perplime, probabilmente vorrebbe trovarsi altrove. Forse odia i gaijin.
"Gantz it's a manga by Hiroya Oku" faccio io.
"AAAH, GANZO!" fa lui risoluto, poi trotterella verso uno scaffale poco lontano, seguito dal sottoscritto.
Alla fine mi sa che non comprai nulla, in quella libreria lì. Gli unici fumetti che acquistai durante il viaggio furono alcuni squallidi pornazzi da conbini. Li utilizzai in seguito per la creazione di un fallimentare découpage, realizzato ritagliando prima con pazienza certosina le zinnute figurine (al solito grondanti umori vaginali), appiccicandole poi su una superficie con una colla di qualche tipo, e infine ricoprendo il collage con una vernice vetrificante che ha generato solo bozzi e chiazze e insomma tutto da buttare. Gli esperti dicono che era sbagliata la vernice, ma vallo a sapere quando fai del porno bricolage.
Tre anni dopo questi eventi, Gantz è bell'è concluso anche da noi. Minus l'ho comprato, giace in libreria alla fine dei 37 volumi dell'opera originale, seguito dai dieci volumi italiani di I am a hero (un bel manga di cui vorrei parlare qui, prima o poi). 13 anni di vita editoriale non sono mica una sciocchezzuola.
Che schifo cazzo. Siamo fatti di carne, ossa e sangue e appena morti iniziamo a decomporci. Eppure a Tokyo un'entità misteriosa concede a giovani e vecchi, donne e bambini appena morti il lusso di risorgere in una stanza dove si trova una grossa sfera nera. La sfera nera inizia a impartire ordini: dovete uccidere tizio caio e ciccio, avete tot tempo. La sfera si apre rivelando un arsenale di armi sciffì e costumi attillatissimi da cosplayer wannabe. Nudi o vestiti, gli ospiti vengono teletrasportati verso destinazione ignota senza alcun preavviso. E la caccia inizia...
Questo è il plot di Gantz, sintetizzato per voi dai laboratori Cutter.
(Oh, mi sono ricordato che una volta andai a cercarne un volume che mi mancava nelle bancarelle vicino alla stazione Termini, quelle dove si vendono libri e fumetti di riciclo. Quando chiesi al negoziante se avesse qualche numero di Gantz, mi rispose: "Che gantz vuoi!". Fine umorista. Forse sono io che lo pronuncio male).
La ricetta di Oku per questo seinen spettacolare è (quasi) sempre stata: azione al tritolo, tsunami di gore, protagonisti minchietta, protagoniste arrapanti spesso nude e crude e porche.
E i nemici più belli, grossi e spaventosi che siano mai stati concepiti.
Altro ingrediente interessante sono i reiterati capovolgimenti del racconto, una serie di twist acrobatici e molto spericolati che mantengono (almeno nella prima metà della serie) vivo l'interesse del lettore. L'autore ha continuato a sovrapporre senza freno nuovi e affascinanti misteri in ogni capitolo, senza preoccuparsi di contrarre quella che ormai è conosciuta come la sindrome di Lost: se non hai chiaro in mente come finirà, cazzo continui a ingarbugliare le trame?
E così sul finale, quando si trattava di quagliare con un climax dignitoso o perlomeno all'altezza della prima tranche, la formula escogitata da Oku rivela al mondo tutta la sua fragilità. Esaurita la spinta misteriosa, l'azione svilita a qualche über papagna di quando in quando, persino coi disegni svogliati e tirati via, Gantz si spegne su un plot da videogioco 8 bit, si accartoccia sulla morale del vetusto Zambot 3 (l'ha detto l'autore!) e si rimangia tutte quelle promesse di rivelazioni sconvolgenti che mi avevano fatto sperare nel manga seinen definitivo. Forse perchè nel frattempo aveva fatto uscire La mia Maetel, il sospetto che Oku si fosse bevuto il cervello si stava materializzando beffardo. Come puoi conciliare un talento votato all'azione violenta con un lagnuso racconto di formazione sessuale hikikomori? Ed è forse un caso che il manga si tinga progressivamente di rosa man mano che avanza verso il nero oblio della fine? Una cosa bisogna riconoscere però: l'autore non cede fino in fondo alle lusinghe dell'ovvietà, decidendo di consegnare lo scettro di regina comprimaria alla bruttina della serie, Tae. Senza tette, senza culo, senza espressione. Una scelta coraggiosa che stimo. Seriously.
Di Gantz mi rimarranno impressi i primi cinque traumatici numeri, la dicotomia boobs & blood, i decessi improvvisi dei protagonisti che manco R. R. Martin nei suoi sogni bagnati; i vampiri che ribaltano Ikebukuro, il giapponegro che sforacchia migliaia di passanti, contrastato da due adepti dei Wachowski; l'ipertrofico citazionismo, le continue strizzate d'occhio all'iconografia pop occidentale. E molte altre meraviglie che fate prima a leggerlo, lo consiglio senza remore nonostante lo scivolone in dirittura di arrivo. Che scrivere un buon finale è un lavoro mica da ridere.

sabato 8 marzo 2014

THE LAST DOOR: SEASON 1


La prima cosa che mi è venuta in mente, guardando l'introduzione di The Last Door, è stata: Sword & Sworcery. La seconda, durante la musica nei titoli di testa: Jim Guthrie non è più il king del genere. Ma andiamo con ordine. Creata dalla software house iberica the game kitchen, e finanziata con una campagna crowdfunding di poche pretese, 
The Last Door è un'avventura horror punta e clicka dall'inequivocabile sapore vintage, nell'aspetto e nelle meccaniche. Abbiamo quindi pixel grandi, anzi enormi a delineare ambienti e personaggi; un'interfaccia, composta da una barra dell'inventario dove si collocano gli oggetti raccolti, e un puntatore per camminare/evidenziare gli hot-sposts in giro per gli ambienti.
Quattro sono gli elementi che rendono assai rilevante il gioco di the game kitchen:
1) La serializzazione dell'avventura in capitoli, a mò di serial via cavo.
2) La modalità free to play che permette di usufruire del capitolo precedente a quello appena pubblicato.
3) Una colonna sonora incredibile, a opera di Carlos Viola, scaricabile gratuitamente (!) a quest'indirizzo.
4) Un'atmosfera che, considerati i limiti tecnici, è un autentico miracolo di scrittura e direzione artistica.
Ovvero, emozionarsi davanti a un cervo morto nel bosco, un pasticcio di pixel ocra e maròn decifrabili a fatica, e chiedersi come diavolo abbiano fatto.
The Last Door racchiude pregi e difetti di un genere dato per spacciato fin dal crepuscolo dell'era Lucas: sospendere l'incredulità è basilare per proseguire in scioltezza, se non volete chiedervi per quale motivo dovreste mettervi in tasca uno schifosissimo corvo sanguinolento e moribondo. Le soluzioni naif si alternano ad altre perfettamente logiche, propedeutiche al districarsi della trama messa a punto per il giovine e malinconico protagonista Devitt, vittima immemore di un patto scellerato stretto con innominabili forze oscure. Gli enigmi predisposti portano discrete ed immediate soddisfazioni, con gli elementi risolutivi (quasi) sempre a portata di mano e un backtracking al minimo sindacale. Se questo sia un bene o meno, dipende dalla vostra fame di difficoltà: personalmente ho apprezzato l'immediatezza, il videogioco moderno ha corrotto la mia capacità di contemplo© a suon di frag, e se non soluziono le cose in tempi ragionevoli divento irrequieto.
Nota per gli avventurieri provetti: la curva di difficoltà è crescente. Si parte da un primo capitolo a prova di fidanzata, fino ad un season finale decisamente più pepato. Come dicevo poc'anzi,The Last Door gode di una direzione artistica pregevole: muovere i primi passi nella location iniziale sprigiona un inesorabile effetto nostalgia, mentre ancora siete scossi da un main theme capace di commuovere l'orecchio più severo. Avanziamo nei corridoi, lanterna alla mano, assaporando il distillato di tenebra incline allo spaghetto infartuante: e vi assicuro che vi beccherete la vostra bella dose di spaventerelli. Non è incredibile? Dei grossi blocchi di grafica raster possono fare paura. Certo, prima c'è stato quell'altro gioco, ma qui siamo su livelli ancor più minimali. Gli autori rivendicano le loro creazioni grafiche nei titoli di coda: quadri, mobili, oggetti delle ambientazioni vengono trattati alla stregua di piccole opere d'arte, e quindi esposte e firmate. Sono minuscoli mondi artigianali creati col sudore delle nocche e il cigolio delle tendiniti da abuso di mouse. Sono dettagli che trasudano amore, sono le cose che amiamo vedere nei titoli indipendenti.
Sul versante narrativo gli sviluppatori hanno attinto a piene mani da Poe e Lovecraft, ça va sans dire. Nel primo capitolo Devitt scopre un gatto nero murato vivo in uno scantinato: facile facile. Nel secondo capitolo una mefistofelica citazione a Che fine ha fatto baby Jane? solletica il cinefilo e costruisce altri piani di lettura. Potrebbe apparire pretestuoso: Devitt attraversa il (suo) mondo horror come fosse un ipertesto collegato a tutte le cose che piacciono agli autori, anche se con il racconto a volte c'entrano poco. Io credo che invece si tratti di un gioco nel gioco, una forma di ironia pop che dilaga in una forma di intrattenimento di nicchia. Senza tirare in ballo i post-qualcosa: un poP-pourri di grafica primordiale, musiche da brivido, cinema, fumetto e letteratura weird è una pietanza estremamente salutare.
Oh, la season 1 di The Last Door è terminata da poco, ma è prevista una season 2 in arrivo per l'estate. Se volete finanziarla questo è il sito, lo stesso dove potete gustarvi gratuitamente i primi 3 capitoli. Il quarto capitolo non è stato ancora rilasciato in modalità free to play, e si può acquistare a partire da un'offerta di 1 miserabile euro.
Ultima nota: il gioco è giocabile on-line previa installazione di Flash Player ed è tradotto in italiano e in altre 8mila lingue tra cui l'esperanto (sic). L'ultimo capitolo invece è fruibile solo in spagnolo e inglese, chissà perchè.
Videte ne quis sciat.

martedì 19 novembre 2013

AA.VV. IL MEGLIO DI SPLATTER



Il nuovo monolito Rizzoli Lizard ha tre caratteristiche fondamentali che gli permettono di farsi notare tra le novità esposte in fumetteria: il prepotente formato 21x28, la copertina di Marco Soldi, ma soprattutto il logo Splatter a caratteri cubitali forgiato sul tipico font della leggendaria testata. E così ho già il portafoglio in mano e sto contando 25 euro, colto da febbre malarica al pensiero di rileggere rubriche e storie che più di venti anni fa mi avevano rubato il cuore. Di sfuggita, mentre il commesso insacca l'acquisto, leggo in copertina che Dario Argento ha scritto l'introduzione e d'istinto ho un ripensamento. Valà - penso - è solo un'intro del menga che non potrà disturbare le dolci letture che mi attendono nel rustico tepore del mio salottino. Disturbare non disturba, epperò il Darione riesce a fallire anche scrivendo quattro righe celebrative, rimembrandoci di quando lui aveva creato una sua linea di fumetti (Profondo Rosso, formato bonelliano, brutta brutta), confondendosi tra ovvietà ed off-topic. Siccome quando acquisto un libro di siffatto tamaño me lo devo leggere tutto, comprese le note di produzione e l'indirizzo della casa editrice, mi infliggo in fretta e furia la breve lettura, giro ancora qualche pagina e inizia la magia. Si parte col maestro Micheluzzi e il racconto Pezzi da esposizione, perfetta sintesi della verve cinica e brutale che contraddistingue i migliori racconti della testata. Diciamolo, a scanso di equivoci: non tutte le storie selezionate dallo staff Rizzoli sono così ben riuscite. Ricordo, avendo consumato la collezione originale (che ahimè rivendetti al mercato nero in cambio di un tocco di fumo), diverse perle qui trascurate in favore di storie a mio giudizio poco rappresentative: Buone vacanze, Il primo tram e Gli occhi della bambola per esempio, che rilette ora appaiono davvero ingenue e senza sugo. Comunque, nel mucchio risplende senza dubbio Self-service, di Ferrandino e Brindisi, un racconto vagamente ispirato a L'arte di sopravvivere di Stephen King (pubblicato sulla raccolta Scheletri). Bel concentrato di ferocia e sberleffo, narra di un tizio talmente in fotta con sé stesso da considerare lurido e infetto il resto dell'umanità. Visto che ormai non si nutre più normalmente per paura dei microbi, scopre che il pasto ideale per un grand'uomo come lui non può essere che... la sua stessa carne. Dà il via così a un grottesco banchetto, partendo da un pollice del piede alla piastra, molto buono ma poco nutriente; armato di sega e anestetici, il povero coglione si taglia via la gamba fino al ginocchio, e poi su fino all'inguine. Intanto in cucina si diletta con brasati, tartara e wellington, continuando a segare prima l'altra gamba e infine un intero braccio. Rimasto a corto di arti e bloccato a letto in uno stato di semiputrefazione, decide da brava massaia di buttarsi nella spazzatura. E naturalmente il suo ultimo pensiero è: "che spreco tutto questo ben di dio..."
 La lettura dura un paio di minuti, ma con robusta concentrazione di dettagli gore. Davvero succulenta, per restare in tema. Parlando di Bruno Brindisi, non si tratta dell'unico fumettista reclutato in seguito da Sergio Bonelli Editore, giusto per chiarire quanto Splatter sia stata una buona palestra di futuri talenti quali Luigi Siniscalchi, Nicola Mari, Marco Soldi, Roberto De Angelis, Enea Riboldi, Giancarlo Caracuzzo (Alessandrini, Roi e il compianto Micheluzzi erano nello staff già da tempo) solo per citare i disegnatori. Ne ho dimenticato qualcuno?
Dalla miniserie Fiabe scannate è stata riproposta solo Cappuccetto rosso (di Ferrandino, Salvatore e Soldi), così come Primi delitti è rappresentato da Il tacchino vuole giocare (Di Orazio, Perrone e Soldi). Ottime storie, ironiche e feroci, nonostante lo scarso dispendio di plasma, strano eh? Come non citare infine Dolce (di Ferrandino e Siniscalchi), dove una coppia di gemelli cicciosissimi viene ingozzata ad libitum da un'avida mammina per sfruttarli come fenomeni di una serie televisiva. Ma la vendetta è un piatto che va gustato, punto.
  Splatter non era solo fumetti, ma anche rubriche e approfondimenti. Come Black & Decker, il manuale del fai-da-te dove si spiegavano le ricette dei maestri del cinema gore. Cercate di capire, all'epoca non è che ci fosse tutta sta gran cultura sul tema, e all'avvento dell'Internet mancava ancora un lustro o pressapoco. I fan si facevano i rasponi su Freddy Krueger, Leatherface, l'Esorciccio, Jason Voorhees e poco altro. Mentre negli Stati Uniti impazzava Fangoria qua da noi il genere veniva liquidato come semplice spazzatura nauseabonda. Splatter se ne usciva con pezzi meravigliosi su come costruirsi cadaveri squartati, su come far gonfiare la gola a una creatura, ti raccontava come usciva il Chestburster dall'addome di John Hurt spiegandoti i trucchi nel dettaglio. Come non amarli? Divoravo avidamente quelle pagine proibite, sperando che la mamma non trovasse le riviste, nascoste sotto il letto come volgari pornazzi. Oltre al momento didattico, ogni mese un approfondimento si occupava degli aspetti più reconditi della cultura splatter: indagini su casi spaventevoli realmente accaduti, racconti scellerati, interviste, analisi critica di materiale originale. Proprio in uno di questi articoli, peraltro presente nel volumone Rizzoli, venni a conoscenza del bestiale Urotsukidoji: Legend of the Overfiend, un Cultone Animato che riuscii a vedere solo anni dopo, quando i vhs costavano 45mila lire e il trend di manga e derivati stava definitivamente per decollare. Roba delirante per l'epoca, recensire un kaiju/tentacular rape estremo dove cazzi giganti distruggono le metropoli a sborrate, demoni e bestie vanno in giro tranquilli a stuprare, squartare, evirare, il tutto rappresentato senza la trista censura degli organi genitali maschili e femminili. All'epoca non potevo saperlo, nè immaginavo che la violenza potesse essere rappresentata in modi così esotici e creativi, ma presi nota e tirai avanti finchè non riuscii a mettere le mani sull'opera in questione. E allora fui davvero grato a Splatter, per avermi messo sulla via dell'insalubre cultura horror orientale.
 Splatter fu oggetto di persecuzioni et similia, tuttavia vi risparmierò il pistolotto sul moralismo di una classe dirigente che, partendo da un'interrogazione parlamentare, portò alla chiusura delle testate Acme e alla condanna per istigazione a delinquere di alcuni suoi collaboratori. E' comunque interessante leggere un articolo dell'Espresso a cura di Roberto Cotroneo dal titolo Che horror!, riportato per intero nell'edizione Rizzoli. Il giornalista, palesemente ostile alla materia, si spreme nell'infliggere parabole morali a lettori e redattori, buttando nel mucchio tutti i fumetti che all'epoca trattavano l'horror (probabilmente non immaginando il suo roseo futuro), alternando approcci psicoanalitici alquanto discutibili (con tanto di box curato dalla "specialista") ad una visione manichea come non se ne vedeva dai tempi del naufragio della gloriosa E.C. Oggi un articolo del genere verrebbe liquidato con un sonoro pfui, ma all'epoca quotidiani e riviste nazionali agirono compatti contro la minaccia alla psiche dei giovini virgulti della patria, con titoloni subnormali che manco Cronaca Vera in stato di grazia. Almeno sappiamo chi dobbiamo ringraziare per quella caccia alle streghe.
 Nel volume sono inoltre presenti tutte le splendide copertine di Marco Soldi più un'autentica pagina della posta vergata col sangue e giunta all'epoca in redazione. Ultima nota tecnica negativa per la qualità altalenante della stampa e i bozzi che ho trovato sulla copertina, mannaggia alla febbre tropicale che mi coglie quando sbavo in libreria davanti agli amarcord. Per il resto, si tratta di un volume imperdibile per i nostalgici dell'epoca d'oro del fumetto horror italiano, o per le nuove leve che si abbeverano al ripulito filone contemporaneo e ignorano le origini, ma anche per i semplici appassionati del genere alla ricerca di storie ben scritte e disegnate. Se invece non avete svenduto la collezione originale perchè avevate le pezze al culo, potete anche farne a meno e continuare a consumare quella!

sabato 13 luglio 2013

MUSICA PER ORGANI CALDI


A proposito di bollito (vedi articolo precedente), sono in attesa di Phil Anselmo and The Illegals - Walk Through Exits Only: probabilmente ne scriverò a settembre (assieme alla parzialmente defunta recensione di Tomorrow's Harvest). Nel frattempo sto creando il mio primo videogame, una cosa davvero impegnativa per i miei standard lavorativi, quindi mi rimane poco tempo per scrivere qui. In compenso ascolto un sacco di musica e nei ritagli preparo i mixtape per le ferie. Il 2013 è stato finora parecchio generoso con l'elettronica d'avanguardia (Holden, Bibio, Siriusmo, Mount Kimbie e Fuck Buttons); idem sul fronte opposto (heavy/psych/stoner/doom/prog e cazzivari), abbiamo perle di rara intesità come l'ultimo Uncle Acid (Mind Control), il meraviglioso Abra Kadavar dei Kadavar (che ahimè non usano Soundcloud), il nuovo dei Naam (Vow), quei tuonati dei The Flaming Lips (The Terror). Quaggiù trovate l'apice dell'apoteosi di 7 mesi di ascolti eterogenei e turbolenti. La lista sarebbe gargantuesca, mi limito a 10 perchè lo spazio è tiranno e devo nutrire la mia creatura: quando sarà pronta la demo, non mancherò di testarla sul blob. See ya!
 

DAVID LYNCH: THE BIG DREAM. UNA RECENSIONE FRETTOLOSA


lunedì 17 giugno 2013

OUTRAGE: BEYOND


Non so a voi, ma a me la cosiddetta "trilogia del suicidio" m'ha fatto due palle così. Con Outrage si tornava finalmente al rigido Beat-protocollo: mignoli mozzati, brutali percosse, malavitosi che urlano ARROH BARROH ARRAH NANDE RRAH ORREAH, sbirri corrotti, deferenze a 90°, e naturalmente i meravigliosi tic di Tikano. Kitano.
Si tornava a sperare insomma. L'eccessiva durata indulgeva talvolta nella noia ma ciò non significa nulla, la noia è un fattore intrinseco al medium cinematografico e bisogna saperci fare i conti. Anche Miike annoia. Sion Sono annoia. Kurosawa (Kiyoshi, eh) annoia. Tsukamoto non annoia, ma è un altro fottuto campo da gioco. Outrage narra per l'appunto di un oltraggio, debito che si contrae facilmente negli ambienti della yakuza, dove basta mezza occhiata storta al capo e devi tagliare il dito. La faccenda è molto più grave: Otomo (Takeshi Kitano) e la sua gang vengono incastrati dal boss Ikemoto in una faida mortale, ordita dal capo supremo della famiglia Sanno, deciso a sbarazzarsi delle famiglie scomode al fine di sbafarsi tutta la torta tra estorsioni, pachinko, pornografia e speculazioni di varia natura. La faida termina con lo sterminio totale dei membri affiliati ad Otomo, il quale si salva in extremis affidandosi al suo kohai (contrario di senpai) poliziotto, e finendo al fresco dove morirà poco dopo pugnalato da un vecchio rivale.
Nel finale il vice-capo dei Sanno, il servile e vessatissimo Kato, mette in scena l'ennesimo tradimento, uccidendo il boss e prendendo possesso del clan.
Autoreiji: Biyondo inizia qualche anno dopo gli eventi narrati nel precedente capitolo. Kato ha reso possibile l'egemonia economica del clan, tuttavia alcuni capifamiglia sospettano della strana dipartita del precedente boss e progettano di rovesciarlo. Il complotto li porta a conferire con la potente famiglia Hanabishi ad Osaka, nella convinzione che i rivali appoggino il loro progetto di repentina destituzione del boss, ignorando però l'alleanza che lega segretamente le due cosche. Al ritorno del drappello a Tokyo infatti ci scappa il morto, che nonostante le infinite prostrazioni e i salamelecchi, si becca un proiettile sul grugno a monito per i poveri illusi con ambizioni sovversive. Il sospetto tuttavia s'è insinuato tra le famiglie, e chi tenta di approfittarne è il solito sbirro corrotto e doppiogiochista. Nel frattempo si scopre che Otomo era sopravvissuto alle pugnalate, e sta per uscire dalla galera...
Il film parte lento e cerimonioso, si concede qualche assaggio violento, prosegue ieratico con una mdp leggermente più mobile rispetto al predecessore. Scene misuratissime, che rilasciano piccole dosi di meravigliosa tensione frustrata. Nulla sembra accadere nella prima metà del film, se non chiacchiere, estenuanti riunioni al sakè e pochissime pistolettate. In quest'atmosfera astratta, dove la civiltà umana è inesistente o completamente ignorata, cova il Kitano beffardo pronto a scannare lo spettatore con aggressioni di prim'ordine. Chi ne conosce la filmografia sarà adeguatamente preparato. È un Kitano manierista di sé stesso, eppure insolitamente fresco e brillante, con le paranoie d'autore finalmente lasciate alle spalle, concentrato su ciò che sa fare meglio. Molteplici i punti di contatto con i vecchi classici quali Sonatine, Boiling Point, Violent cop, Hana-bi; è accantonata però la vena più poetica, quella che andava accostando la pittura alle esplosioni di straniante violenza. Estetica tutta concentrata sulla fotografia, bandite le metafore, rimangono solo i burattini manovrati dall'onore e le sue regole. Kitano calca la mano sulla caratterizzazione dei protagonisti, ne esalta il lato grottesco fino alla parodia, escogitando interessanti soluzioni. Su tutte troneggia la scena del meeting tra Otomo, il suo compare Kimura e il gruppo Hanabishi di Osaka. Contrapposti a un gruppo di yakuza vecchio stampo, parlata biascicante e facce deformi (Lombroso docet), troviamo un Kitano molto performante alle prese con una scaramuccia estemporanea potenzialmente distruttiva. La rozzezza della discussione, la crescente tensione fisica delle parti in causa, le smorfie coreografiche, creano una sequenza al contempo esilarante e drammatica, placata con garbo dal feroce gesto di autocannibalismo di Kimura (si stacca un dito tra le fauci). Altri tipi o stereotipi, il boss nippo-coreano dalla fronte altissima che suscita ilarità (ma forse è un problema mio), il traditore che si piscia addosso tra urletti e scongiuri, i bulli da fumetto affiliati a Kimura, contribuiscono a rafforzare l'essenziale folklore di una società impenetrabile come la yakuza.  

Uomini con la fronte altissima

Oltre l'oltraggio: la trama si focalizza sulla doppia vendetta di Otomo e Kimura. In agguato, la tortura che ognuno vorrebbe perpetrare al proprio peggior nemico; chiude in bellezza, un epilogo tagliato con l'accetta. Contribuiscono a consolidare il buon risultato un corretto equilibrio tra violenza e humour, l'assoluta mancanza di una qualsivoglia morale a guastare la visione, un intreccio narrativo complesso ma non ammorbante, attori comprimari scelti con più criterio rispetto ad alcune facce da tonno del primo capitolo. Kitano esce senza dubbio rinvigorito dalla doppietta Outrage, a conferma delle teorie sulle sue cicliche cadute e rinascite. Ha saputo ritrovare una poetica coerente come autore e regista, in barba alla crisi che lo aveva investito lasciandolo agonizzante e con un ciclo di film patetici da spiegare a un pubblico esterrefatto. Nonostante il risultato sia certamente sottotono rispetto ai capolavori del passato, dove era riuscito a distaccarsi dal genere in modo imprevisto e naturale (ciclo che culmina col sorprendente Zatoichi), la strada imboccata pare quella giusta, e noi non possiamo far altro che chiedere, a gran voce, more of the same, and glory to the filmmaker!


martedì 11 giugno 2013

THE WITCHER 3: WILD HUNT TRAILER




Questo trailer capita a fagiuolo, dato che sto concludendo la lettura dell'ultimo Sapkowski edito in Italia (Il tempo della guerra). Immagini che mostrano un Geralt più scontroso e risoluto del solito; del resto, c'è il girovita di Yennefer in ballo.
Godetene tutti, che è tanta roba davvero.

sabato 8 giugno 2013

THE BOYS #18 OUT NOW!


Fomento, gioia e distruzione allo stato puro! Gli eventi messi in moto negli ultimi numeri di The Boys si focalizzano brutalmente sull'attesissimo finale, uno spaventoso crescendo confezionato ad arte per tenerci incollati e palpitanti alle pagine di un numero da incorniciare. Un tripudio di sbudellamenti, decapitazioni, decervellamenti e mutilazioni come non se ne vedeva da un pezzo su questi lidi. Oh, e un colpo di scena decisamente spiazzante. Vediamo molto brevemente di cosa tratta questa serie, per i pochi eremiti che non conoscono la strana creatura di Garth Ennis.
Quella dei Boys è una squadra che si occupa di tenere sotto controllo i supereroi per conto della CIA. Dietro l'immagine patriottica e benevola dei super, diffusa capillarmente dalla multinazionale Vought-American che ne detiene i diritti commerciali, si cela infatti una banda di psicotici, tossici, sessuomani e disadattati di ogni specie, dotati artificialmente di superpoteri mediante la somministrazione di un composto chimico segreto (il "Composto V"). La squadra dei Boys di Billy Butcher, composta dal Francese, Latte Materno, la Femmina della Specie e Mallory, non va per il sottile quando si tratta di raddrizzare i bastardi in calzamaglia, decimandone le fila con violente rappresaglie condite da prese per il culo da sbellicarsi.
Quando all'ignaro scozzese Hughie viene per errore maciullata la fidanzata da A-Train (un super del gruppo dei Sette), Butcher lo introduce al mondo dei Boys, iniettandogli il Composto V e mostrandogli il vero volto della Vought-American e delle sue nefaste creazioni...
Sostanzialmente The Boys è una storia di vendetta, quella di Butcher in primo luogo, così come quella di Hughie (modellato sulle fattezze dell'attore Simon Pegg); si tratta di due personaggi complementari, caratterialmente opposti, che condividono una grave perdita a causa dei sadici trastulli dei Super.Tuttavia ciò che rende grandioso questo fumetto è la devastante satira ai danni della cultura supereroistica, cosa che fece naturalmente inorridire DC Comics, che infatti cedette di buon grado la serie a Dynamite Entertainment, dopo appena sei numeri dall'inizio delle pubblicazioni. Lo schema di genere è completamente ribaltato: i supereroi sono perversi e abbietti, i loro fan solo statistiche a usufrutto delle corporation, i normali esseri umani sono giocattoli da spremere e scopare all'infinito durante le orge degli insaziabili superuomini. Anni di cinema che cerca di propinarci il supereroe conflittuale e problematico vengono spazzati via da un semplice constatazione: da grandi poteri derivano peggiori bestialità. E a me va benissimo, che non sono mai stato un gran lettore di supereroi, pur riconoscendone tutti i meriti culturali e le persecuzioni che ha dovuto sopportare. La serialità però non la digerisco. Le vendite crollano e poi lo vedi cosa succede, devi fare i revamp, i crossover, gli outing, i fisting per tenere sveglio un pubblico anestetizzato, e in questo The Boys picchia sodo, va a stuzzicare quel nervo scoperto con un piede di porco. L'industria del fumetto strizza i brand fino a cavarne ogni stilla di magia in nome del profitto: ricordate cosa fecero a Lobo? Ennis tiene duro e rimane 100% hardcore per tutti i 18 volumi, pur con qualche calo di tono qua e là, sistemato ad hoc per allungare la broda. Beh, anche Preacher s'impantanava a tratti, ma pochi si sono lamentati. Lo sceneggiatore irlandese ridicolizza malamente i suoi bersagli, dal funzionario della CIA feticista degli handicap, al vicepresidente degli Stati Uniti visibilmente subnormale che richiede pompini a gran voce, alle famiglie bigotte che partecipano ai raduni religiosi di facciata organizzati dalla Vought. Non lesina su gore e dettagli pornografici, presenti in dosi da cavallo: tutta roba ovviamente mai vista nelle classiche saghe Marvel/DC. Il risultato è un adrenalinico, folle spettacolo per stomaci foderati con setole di suino. Ne verrebbe senza dubbio fuori un gran bel serial tv (l'idea c'era...), visto anche il successo di esperimenti analoghi, alla Misfits per intenderci. Meno fiducia ripongo nell'idea di un film, ma sarei ben felice di essere smentito.
The Boys #18, penultimo numero (negli Stati Uniti la serie è già conclusa): dopo alcuni spin-off che indagano le origini della missione e il passato di Butcher e compagni, le trame convergono sullo scontro finale tra i Boys e i Super, radunati a Washington da un folle Patriota. Butcher si getta nella mischia pronto ad assaporare la sua vendetta, ignaro di cosa veramente lo stia attendendo in agguato assieme al suo peggior nemico..
Ancora un volume ci separa dunque dalla fine: nell'attesa, ecco la splendida, eloquente copertina del prossimo numero.


Arte. Chi può davvero definirla?